一期一会 (ICHI GO ICHI E) Una volta un incontro

(ICHI GO ICHI E) Una volta un incontro è stata una mostra esposta a Roma presso il Museo delle Civiltà – Museo Pigorini dal 22 Febbraio al 30 marzo 2019. Il catalogo, pubblicato da Edizioni Espera, è ancora reperibile presso l’Editore (https://www.edizioniespera.com/) e sulle maggiori piattaforme on line. Una selezione di stampe della mostra è in vendita presso lo Spazio Tetenal di Roma (https://www.tetenal.it/shop/photo-d-autore/photo-5-giappone.html)

Di seguito il testo introduttivo tratto dal catalogo della mostra.

“L’ospitante, di conseguenza, deve sinceramente avere la massima cura in ogni aspetto dell’incontro e dedicarsi interamente a garantire che nulla sia poco curato” (Ii Naosuke)

Perché Ichi go ichi e

Quando nel 2011 andai per la prima volta in Giappone non avevo, per usare un termine molto abusato, un “progetto fotografico”. Facevo foto ai soggetti che più mi colpivano. Nulla di più banale. Ho fatto quello che la maggioranza delle persone fa quando visita un posto. Lasciandomi guidare dalle situazioni e dalle atmosfere, ho lasciato al caso il compito di costruire scatto dopo scatto quel famoso “progetto”. Riguardando poi i negativi di quel primo viaggio, lentamente prendeva consistenza l’idea che qualcosa nel modo di vivere dei giapponesi avesse attratto maggiormente la mia attenzione. Sempre più interessato alla cultura giapponese, scoprii una frase legata intimamente al sadō, la “cerimonia del tè”: ichi go ichi e.

Finalmente avevo trovato un senso alla mia ricerca!

E’ difficile tradurre letteralmente la frase di quattro caratteri 一期一会 (Ichi-go ichi-e).

I kanji che la compongono potrebbero essere tradotti con una certa libertà in “ogni incontro è per una sola volta”.

La frase, così formulata, la si trova per la prima volta nel trattato Chanoyu Ichie Shū di Ii Naosuke ( 1815–1860) che riprende gli insegnamenti di Sen no Rikyu (1522-1591), quasi leggendario maestro del cha no yu (cerimonia del tè). Naosuke ha espresso in maniera definitiva il senso della frase che è poi quello che ancora oggi i giapponesi intendono:Grande attenzione dovrebbe essere data ad una cerimonia del tè, che possiamo definire come di “una volta, un incontro” (ichi go, ichi e). Anche se l’ospitante e gli ospiti si possono vedere tra loro spesso in occasioni sociali, l’occasione conviviale di un giorno non potrà mai essere ripetuta esattamente uguale. Visto in questo modo, l’incontro è davvero un’occasione irripetibile. L’ospitante, di conseguenza, deve sinceramente avere la massima cura in ogni aspetto dell’incontro e dedicarsi interamente a garantire che nulla sia poco curato. Gli ospiti, da parte loro, devono capire che l’incontro non potrà ripetersi e, apprezzando come l’ospitante l’ha pianificato in modo impeccabile, deve anche partecipare con sincerità. Questo è ciò che si intende per “una volta, un incontro”. (Ii Naosuke, 1858. Chanoyu Ichie Shū)

Nonostante il fatto che Ichi go ichi e sia un concetto che ha origine centinaia di anni fa, il senso profondo della frase pervade la vita moderna dei giapponesi: ichi go ichi e può essere considerata una filosofia di vita.

Questo, forse, è uno dei segreti dei giapponesi.

Penso che chiunque sia stato in Giappone abbia notato come i giapponesi programmano, organizzano, realizzano la loro vita di tutti i giorni: dall’istruzione al lavoro, dalla spiritualità allo svago, nulla sembra lasciato al caso. In ogni azione che si intraprende, fin dai primi anni di scuola, si insegna ad agire bene subito, senza rinviare o pensare di poter ripetere, perché quell’occasione non tornerà mai più e, anche se tornerà, non sarà mai uguale.

Da questo presupposto prese il via, nei miei viaggi successivi, una ricerca costante del senso di ichi go ichi e attraverso le immagini che scattavo. Giovani, adulti e anziani ripresi nella vita quotidiana mentre si dedicano al lavoro o alle attività più tradizionalmente giapponesi.

Ichi go ichi e è gradualmente diventato per me sia un modo di praticare la fotografia, sia una motivazione in più.

Diciamo subito a questo proposito che, forse, nessun concetto filosofico si adatta così bene alla fotografia.

Il concetto di Ichi go ichi e ci ricorda che ogni incontro, quindi ogni occasione fotografica, è unico e irripetibile, cioè si presenta una sola volta nella vita. Il singolo scatto riacquista dunque quel valore che troppo spesso ormai, con l’avvento del digitale e ancor più con l’avvento dei “telefoni che fanno foto”, va perdendo.

Un concetto molto simile è sicuramente il famoso “momento decisivo” di Cartier Bresson, che non a caso conosceva bene le filosofie orientali.

La tecnologia digitale ha certamente rivoluzionato il mondo della fotografia permettendo un approccio più semplice e immediato, infatti si può scattare all’infinito e in rapida successione, si può cancellare e scattare di nuovo, si può vedere subito la foto, tutto questo con costi ridottissimi rispetto al passato. Si può infine intervenire in post-produzione per migliorare, correggere, stravolgere, manipolare lo scatto a livelli impensabili rispetto a quello che si può fare in camera oscura. In questa rivoluzione fotografica quello che forse si sta dimenticando però è appunto il valore del singolo istante che deve essere preparato, cercato, catturato con grande concentrazione e studio preliminare.

Quando si scatta, allo stesso modo, non ci si dovrebbe fermare a guardare l’immagine per vedere se è venuta bene, perché proprio mentre si è distratti può succedere qualcosa di irripetibile. Può sembrare paradossale, ma anche un paesaggio immobile cambia ogni istante. Può passare una nuvola cambiando di colpo la luce, si può aprire o chiudere una finestra, può arrivare un gruppo di turisti: l’immagine è già cambiata un istante dopo. Come ricorda spesso il grande fotografo Josef Koudelka “una buona fotografia è un miracolo”. Spesso quel miracolo lo perdiamo definitivamente.

Questo probabilmente è il motivo per il quale ho deciso di non utilizzare il mezzo digitale. Un ritorno alla fotografia classica: fotocamere con otturatori meccanici e pellicola, sviluppo e stampa in camera oscura per seguire personalmente tutte le fasi di creazione dell’immagine. Ed anche qui, nel buio della camera oscura, torna ichi go ichi e. Lo sviluppo della pellicola e soprattutto la stampa, per quanto precisi e scrupolosi, rendono ogni foto unica cristallizzando ancor più in un preciso momento storico lo scatto. Non per nulla i collezionisti di opere fotografiche distinguono una stampa e conseguentemente il suo valore a seconda dell’epoca in cui è stata stampata: un cosiddetto vintage non dovrebbe essere stampato oltre un anno dalla data di scatto.

Ichi go ichi e è una raccomandazione ad essere molto attenti a dare valore a tutto quello che facciamo per gli altri. La cura può e deve essere anche applicata alla fotografia, sia al momento dello scatto, avendo grande rispetto delle persone, sia al momento dell’uso delle immagini nella presentazione e nell’uso che se ne fa.

Fotografare la vita quotidiana in Giappone

Una volta scoperto ichi go ichi e, ho cercato il senso della frase camminando lentamente nelle città e nei piccoli centri con le inseparabili Leica. Il senso l’ho forse trovato nelle piccole cose ordinatamente riposte, nella sobria eleganza delle donne giapponesi, nelle architetture di un tempo ormai quasi dimenticato come nelle strutture modernissime e funzionali. L’ho forse trovato, ancora, nel lavoro manuale curato nei minimi dettagli o nel tè offerto da una anziana signora appena conosciuta che ci ha invitato nella sua casa tradizionale piena di ricordi.

Ho voluto raggruppare le immagini in tre aree tematiche: tradizione, giovani, lavoro.

In questi tre gruppi di fotografie ho cercato di mostrare come i giapponesi vivono nel presente, ma anche come la tradizione abbia un peso rilevante nella vita di tutti, giovani e anziani. Quello che spesso si nota nei gesti, nei comportamenti, nelle scelte di vita è una sorta di ritualità. Tutto ha un significato e un nome, tutto va fatto in un certo modo. Dei giovani ho cercato di mostrare i due aspetti che mi hanno colpito maggiormente: da una lato la grande disciplina negli studi e nel mondo della scuola e dall’altro l’aspetto “carnevalesco” e liberatorio di sospensione della quotidianità e dei ruoli, che a ben guardare però si ferma solo alla superficie del costume indossato.

Infine il lavoro che è uno dei valori principale della società giapponese. Non ho voluto mettere in risalto gli aspetti negativi di un’attitudine al lavoro che porta spesso a situazioni di disagio, ma cogliere invece quegli aspetti di dedizione e cura dei particolari che contraddistinguono le attività dei giapponesi.

Fotografare la vita di tutti i giorni mi ha aiutato a comprendere più profondamente questo paese cercando aspetti meno conosciuti, documentandomi e studiando; mi ha aiutato a conoscere persone e a scambiare idee. Mi ha aiutato e mi continua ad aiutare a guardare le cose da più punti di vista e a superare le innegabili difficoltà che la vita in Giappone presenta per uno straniero non più giovanissimo. La cosa però più importante l’ha fatta costringendomi a rimettere in discussione le mie convinzioni maturate nel corso di una vita occidentale.

La mia esperienza in Giappone

Quelli della mia generazione, i nati negli anni ’70 per intenderci, il Giappone lo hanno incontrato già in tenera età attraverso i cartoni animati che, proprio in quegli anni, apparivano per la prima volta nella televisione italiana. La forza di tale fenomeno ha fatto sì che il Giappone sia stato da sempre per noi qualcosa di familiare, ma allo stesso tempo lontano e mitico. C’era qualcosa di fiabesco e inquietante allo stesso tempo: quanto di quello che era disegnato era reale, quanto inventato o interpretato dalla matita di quei disegnatori entrati nella leggenda? Ricordo anche alcune colonne sonore in lingua originali e poi quei titoli con i caratteri giapponesi, tutto era incomprensibile ma allo stesso tempo familiare, tanto che alcuni riuscivano anche a ripetere le parole di quelle sigle, senza ovviamente comprenderne il significato. Per farla breve, noi siamo cresciuti col mito del Giappone e a quanto mi risulta anche le giovani generazioni continuano ad interessarsi e ad amare tutto ciò che è giapponese, dai manga alla cucina, dalla tecnologia alla cultura. Il Giappone sta vivendo un periodo d’oro per quanto riguarda il turismo: Tokyo e Kyoto sono ormai invase da turisti di tutto il Mondo e quella che fino a qualche decennio fa era considerata una meta di vacanza lontana e costosa ora è raggiungibile a prezzi decisamente più bassi.

La prima volta che ho messo piede sul suolo nipponico è stato nel gennaio del 2011. Il motivo? Sono andato in Giappone per amore. Di cose da allora ne sono successe… La storia con Tomoyo era cominciata sul finire del 2010, in Italia, dove lei era venuta per studiare canto. Una volta ripartita, la raggiunsi poco dopo. Non avevo mai fatto un viaggio così lungo e per di più in un paese che mi aveva sempre affascinato. All’emozione del viaggio ovviamente si aggiungeva quella di rivedere Tomoyo. La nostra era una storia che si preannunciava complicata e che prevedeva delle scelte importanti per entrambi. La distanza era veramente grande. In quel primo soggiorno di una ventina di giorni cominciai a scattare in pellicola bianco e nero, lasciando coscientemente in Italia l’attrezzatura digitale per non cadere in tentazione. Fu una scelta sofferta, ma a distanza di anni, posso dire che lo rifarei. Pensavo fosse un’occasione unica e irripetibile e proprio per questo volevo fissare le immagini su un supporto fisico, tangibile, duraturo. Un giorno, fantasticavo, aprendo un cassetto o un armadio, qualcuno troverà dei negativi con le mie foto del Giappone. La stessa cosa forse non sarebbe successa con un hard disk o un DVD ormai obsoleti ed inutilizzabili o danneggiati.

Ma torniamo a quel primo viaggio. L’esperienza fu indimenticabile. Grazie alle attenzioni di Tomoyo, e alla cura nell’organizzare il viaggio, mi sono immerso nella cultura giapponese cercando il più possibile di abbandonare il punto di vista del turista.

Quando ripartii dall’aeroporto di Narita, ricordo che ci lasciammo in lacrime, consci del fatto che nessuno dei due era sicuro se la storia sarebbe continuata. Poco più tardi accaddero i tragici fatti dello tsunami e della centrale di Fukushima: giorni di ansia e apprensione. Tomoyo si trovava a Tokyo e per fortuna lì non successe nulla di particolarmente grave.

Nell’autunno del 2011 Tomoyo torna in Italia per restarci tre anni e per studiare in Conservatorio. Poi nel 2014 trova lavoro in Giappone e quindi si trasferisce di nuovo, ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la storia continua a distanza. Per fortuna nel frattempo era nato WahtsApp che soppiantò Skype… Poi i viaggi verso il Giappone divennero via via più frequenti. Anche successivamente ho continuato a scattare in pellicola ed a mettere insieme un materiale sempre più consistente sebbene non avessi ancora ben chiaro che cosa farci e che senso dare al tutto. Fatto sta che la mia ricerca fotografica si intrecciava con la mia vita e questo mi piaceva molto.

Finalmente una svolta decisiva per il nostro futuro! Il 30 aprile del 2017 in Campidoglio a Roma in una bella giornata di sole, come solo Roma sa regalare, ci siamo sposati! Ma poi, ancora un periodo di distanza intervallata da riavvicinamenti durante le vacanze. Purtroppo il 9 maggio del 2018 mia sorella Isabella ci lascia a soli 40 anni. Avrei tanto voluto che mia sorella riuscisse a condividere con me la gioia della nascita di Emma, nata 19 settembre del 2018. Abbiamo deciso di farla nascere in Giappone e di farla crescere, almeno i primi anni di vita, qui, di conseguenza io mi trasferisco.

Poi si vedrà.

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